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Occhi Muti
In questa casa dunque era entrata mia madre, sposa diciannovenne, completamente inesperta della vita. Non veramente bella, ma piacente, fine d'aspetto e di sentimenti, timorata di Dio, istruita il giusto, apparentemente docile e remissiva, colpiva con la sua massa di riccioli biondi e i dolci occhi celesti. Proveniva da una famiglia patriarcale di agricoltori, possidenti benestanti, tradizionalmente cattolica, tanto da vantare un sacerdote per generazione. (Ai primi del secolo avevano ospitato nella loro residenza situata in un antichissimo borgo rurale addirittura il futuro Papa Leone XIII, allora Vescovo di Perugia in visita pastorale nel contado.) Entrava ora in una famiglia di media borghesia cittadina di commercianti e artigiani, gente di tradizione laica di stampo garibaldino, liberi pensatori e in fondo atei, per natura onesti e retti. Come appunto mio padre, che senza stare a riflettere tanto sulle conseguenze della punizione o della ricompensa divina, sapeva sempre distinguere fra il bene e il male per innata rettitudine. Per questo era stimato e rispettato da tutti, anche dallo zio prete e dai suoceri, che lo avevano accettato come genero senza tentennamenti e questioni di coscienza.
In quel borgo antico, sorto come roccaforte etrusca sul Tevere contro gli umbri
dilaganti, era nata mia madre nel marzo del 1913. Il nucleo del borgo era costituito
dalla chiesa parrocchiale, dal castello dei marchesi e dalla casa padronale.
Più in basso, sullo stradone che viene su dalla strada maestra, sorge
un bell'edificio del Seicento costruito dai Padri Filippini quale residenza
estiva; poggia, come del resto anche il castello, su possenti archi di cisterne
di costruzione etrusco-romana. Dell'epoca dei Padri era rimasta intatta la cappellina,
intima e raccolta; nello stanzone del piano rialzato era stata allestita la
scuola; il resto era adibito a magazzini. (Più tardi questo edificio
fu acquistato da mio nonno e dai suoi fratelli e divenne la loro abitazione
allorché si divisero dal ceppo dei cugini. Il piano rialzato toccò
alla famiglia di mia madre che nel frattempo si era stabilita a Perugia e fu
sistemato perciò come casa per l'estate; lo stanzone della scuola divenne
la loro sala da pranzo, solo il sotterraneo con le belle arcate etrusche rimase
magazzino e vi furono sistemate le botti del vino. Mia nonna fece piantare sul
campo davanti alle loro finestre un bel boschetto di pini). Le case dei mezzadri
erano sparse verso la campagna. Non c'era neppure un negozio di generi alimentari
e nemmeno l'osteria. La loro casa sembrava una fortezza, infatti era situata
sulla parte più alta del paese e vi si accedeva passando davanti alla
chiesa, che era inserita nel cerchio delle mura esterne del complesso, attraverso
un arco che immetteva in un ampio cortile rettangolare. Al centro, fra la canonica
e il palazzo dei marchesi S., s'innalzava la loro abitazione, che anticamente
faceva parte del castello. Le finestre della parte laterale si aprivano sulla
vallata del Tevere che offriva allo sguardo uno stupendo scenario di colli,
villaggetti e borghi abbarbicati sulle alture. Ma non credo che i parenti di
mia madre si entusiasmassero particolarmente per quel panorama. Per quella gente
la campagna non rappresantava la realizzazione di un ideale arcadico, né
l'appagamento di idilliaci sogni bucolici; la campagna era per loro dura realtà
quotidiana, lotta costante contro gli avversi elementi dell'ambiente, da vincere
e da domare giorno dopo giorno. Mi sembra di vedere il mio bisavolo affacciarsi
a quelle finestre per scandagliare orgoglioso l'estensione dei suoi possedimenti,
o per spiare i movimenti del brigante Cinicchia cui era costretto a pagare un
tributo annuo in grano per assicurare passaggio indisturbato ai legni della
sua famiglia. Oppure a scrutare il cielo quasi sempre sereno, desiderando ardentemente
le nuvole apportatrici di pioggia, la benedizione per una terra costantemente
minacciata dalla siccità.
Lì abitavano due ceppi della stessa famiglia, due fratelli sposati a
due sorelle, figli maschi e femmine, nipoti, garzoni e serve. A volte a tavola
erano quasi una ventina. Quando nel 1913 nacque mia madre, Cecilia, la maggiore
della terza generazione, le figlie femmine erano già sposate; al loro
posto erano subentrate le nuore. C'era rimasta solo una zia zitella, perché
infelice. Oggi si direbbe handicappata. Infatti quando era ancora una bambinetta
le balie, litigando fra di loro, l'avevano colpita con un banchetto rendendola
storpia per tutta la vita.
In questa casa mia madre, bambina silenziosa e solitaria, aveva assistito all'alternarsi
della vita e della morte, naturale come quello delle stagioni. Da dietro le
porte chiuse delle stanze matrimoniali della mamma e della zia aveva sentito
giungere i gemiti soffocati del travaglio del parto; nascosta in un angolino
buio, aveva spiato, impaurita e curiosa, l'andirivieni delle donne di casa e
delle levatrici; aveva udito i primi vagiti della sorellina, Annunziata, nata
due anni dopo di lei, dei fratellini, dei cugini. Più tardi aveva visto
la madre e il padre tristi e sgomenti per la morte dei due maschietti in tenera
età. Tristi sì, ma non disperati, ché la mortalità
infantile era allora molto alta e la fede nel Signore, o un certo fatalismo,
aiutava appunto ad accettare queste o simili disgrazie. Fu chiamata ad assistere
alla morte del nonno insieme a tutto il resto della famiglia; sentì le
urla di agonia della zia infelice, che moriva chiedendo perdono al padre che
l'aveva bastonata da bambina.
In questa numerosa famiglia, in cui curiosamente ricorrevano (e ricorrono tuttora)
i capelli biondi, gli occhi azzurri, la r moscia e la statura imponente, si
potevano riscontrare due tipi somatici: i belli e i brutti. Il mio nonno materno
era dei belli, come pure suo fratello prete, una delle sorelle e la figlia minore,
la sorella di mia madre, la cui bellezza anni più tardi farà sensazione.
Il Padron Fiorellino (era questo l'affettuoso appellativo con cui i contadini
si rivolgevano rispettosamente a mio nonno Ferdinando) era un uomo buono e pacifico,
che non avrebbe mai fatto male a una mosca, e molto amante della famiglia. Sua
moglie Corinna, la mia nonna materna, era una donna di nobili sentimenti, profondamente
religiosa, austera. Proveniva anche lei da una ricca famiglia di possidenti.
Rimasta orfana di madre ancor bambina, era cresciuta senza gioia in un convento
di monache di clausura, insieme a due sorelle. Dal convento era entrata, sposa
illibata, in questa famiglia numerosa e turbolenta. E probabilmente non ci si
era trovata mai bene.
Io non ho avuto mai confidenza con questa nonna severa e distante, che mi metteva
sempre soggezione. Infatti non ricordo di averla mai vista ridere spensieratamente.
Eppure era sicuramente molto più buona dell'altra mia nonna che però,
per quanto autoritaria e prepotente, mi era più alla mano. Ricordo che
molti anni più tardi - i miei nonni abitavano già da tempo in
città - andavo spesso con mia madre a far loro una visitina nel pomeriggio.
Immancabilmente la nonna Corinna domandava se ero stata brava e se la mamma
si lamentava di qualche capriccio, usciva fuori con una frase che odiavo: "Perché
non l'hai chiusa al camerino?"
"Al camerino"! Che orribile espressione da campagnoli! Noi cittadini
dicevamo infatti gabinetto o bagno. Non avevo capito che questa frase non era
altro che un disperato tentativo di proteggere quella figliola sottomessa dalle
angherie della "Sor'Ida". Lei sapeva bene che i nostri capricci in
genere significavano per mia madre delle baruffe in famiglia.
Mai però ho sentito uscire dalla sua bocca delle parole di biasimo nei
confronti del genero o della consuocera.
Probabilmente mia mamma aveva ripreso da sua madre il carattere schivo e malinconico.
Immagino che nemmeno lei si trovasse completamente a suo agio in quella famiglia
in cui nessuno aveva diritto ad un minimo di privacy. Non aveva nemmeno un letto
proprio: doveva dormire in un letto enorme, insieme alla zia zitella e alla
sorella minore. E poi non si prendeva molto nemmeno con la sorella. Mentre mia
madre preferiva appartarsi a ricamare, a leggere le poesie o a curare la sua
aiuola, l'Annunziatina, esuberante e birichina, preferiva fare combriccola con
i cugini e con i figli del marchese. L'obiettivo dei loro scherzi crudeli era
quasi sempre mia mamma. Quante lacrime di rabbia e di dolore deve aver pianto
sul suo cassetto devastato, o sulle pagine strappate del suo diario, o sull'aiola
calpestata! Aveva una sola amichetta, mia madre bambina; una contadinella che
le aveva insegnato a scoprire le meraviglie della natura: due rospetti innamorati,
una lucertola a due code, una nidiata di serpentelli appena sgusciati dalle
uova, un vitellino appena nato.
"Padrona Cicì! So de 'na covina!.." Mi sembra di vederla, la
Padrona Cicì, con il vestitino di mussola bianca ornato di merletti,
le calzine bianche, le scarpe nere di coppale, la collana d'ambra, gli anellini
e i braccialetti d'oro, trotterellare dietro alla contadina scalza, che agile
ed esperta le faceva da guida verso il boschetto di pini, o verso il greto del
fosso. La vedo tenere in mano un uccellino scampolatoio, tutto palpitante. La
vedo piangere sul cadaverino del passerotto, che lei aveva nutrito amorosamente,
trovato morto con le zampette tagliate, sul fondo della gabbia. Anche nella
scuola del paese, quello stanzone che più tardi divenne la sala da pranzo
della residenza estiva dei miei nonni, veniva presa di mira dai lazzi dei condiscepoli,
quasi tutti contadini, specialmente per via dei suoi occhi azzurro chiaro, così
inconsueti in quella regione.
"Sora maestra! me dicono occhi de gaggiaaa!!... " si lamentava lei
piangendo, mentre gli altri, compresa la sorella e i cugini, ridevano a crepapelle.
Eppure doveva essere molto carina, infatti aveva anche un ammiratore d'alto
lignaggio: "Se eravate nobile, vi sposavo" le aveva detto una volta
il figlio maggiore del marchese, suo coetaneo.
Una volta il suo nonno materno l'aveva portata con il legnetto a fare una visita
al bisnonno Pietro. Il vegliardo aveva guardato la bambinetta timida e delicata
con occhi compassionevoli e poi le aveva detto: "Oh, mula, non sposà
uno de campagna com'ha fatto la tu' mamma, sposa uno de città, ché
'n città se sta mejo!
I rintocchi dell'Angelus, al mattino, a mezzogiorno e al vespro, scandivano
la giornata di questa piccola comunità agricola. Dopo la frugale cena
tutta la famiglia, servitù compresa, si ritrovava nel salone per recitare
il rosario. Mentre il patriarca intonava con voce sonora i Pater e gli Ave seguito
dal borbottio monotono e incomprensibile degli astanti, le ombre della sera
calavano lentamente sul poggetto del borgo.
"Nunc et in hora mortis nostrae. Amen."
La luce guizzante delle candele, accese per risparmiare la corrente elettrica,
creava nell'ambiente un'atmosfera spiritistica. Le due bambine si tenevano per
la mano, addossate ai genitori, terrorizzate al pensiero di doversi separare
da loro. Poco dopo, a letto, mentre la zia già russava rumorosamente,
la più piccola, forse pentita delle marachelle del giorno, cominciava
a singhiozzare sommessamente in preda alla paura. I racconti raccapriccianti
della servitù prendevano corpo nella sua fantasia morbosa e credeva di
sentire la mano gelida di un morto che l'afferrava per un piede per portarla
all'inferno. Mia madre, più grande e più ragionevole, si sentiva
in dovere di proteggere questa sorellina capricciosa, ma molto vulnerabile.
Se la stringeva addosso, la rassicurava, la cullava. Si addormentavano l'una
nelle braccia dell'altra, dimentiche dei loro litigi e delle loro baruffe.